Dopo una prima giornata di Festival dedicato alla retrospettiva (tre titoli celebri del cinema spagnolo) la settima edizione del Festival del cine español è entrato nel vivo proponendo le prime quattro pellicole delle otto in programmazione sino al 13 maggio.
Nonostante la serie ininterrotta di problemi tecnici, dall'allarme antincendio che ha ritardato l'inizio del primo film, proiettato con i lucernari aperti che lasciavo filtrare la luce in sala (ma la potenza della lampada del videoproiettore - le proiezioni della gornata erano tutte in video - non ne ha fatto quasi sentire il disagio), al lettore blu ray che si è impallato diverse volte (penalizzando sensibilmente la proiezione di Carmina o revienta, saltandone più di 15 minuti) la giornata di ieri ha offerto al pubblico romano uno spaccato abbastanza variegato del cinema contemporaneo spagnolo.
A giudicare dai film proiettati ieri il cinema di fiction sembra, al momento, mancare di una voce forte e autorevole le pellicole programmate assetandosi tutte, o quasi, a diverso titolo, nel racconto documentario, inteso in senso lato.
Carmina o revienta [t.l. Carmina o esplodi] (Spagna, 2012) di Paco León è un film di fiction che si presenta con una struttura mista: la protagonista racconta l'antefatto che l'ha condotta a compiere un gesto che scopriremo solo nel finale, mentre lei e gli altri personaggi si presentano direttamente al pubblico parlando alla cinepresa, come in un documentario.
Personaggi ben concepiti, magnificamente interpretati (Carmina Barrios, madre del regista, ha vinto il premio come migliore attrice al festival di Malaga 2012) in una storia che testimonia la resistenza e l'ingegno di una donna obesa, poco acculturata (scambia una lavanda vaginale per una medicina da bere...) che sa difendersi benissimo in un mondo di maschi che pensano di poterla sopraffare solo perché è donna, dimostrandosi una vera forza della natura (memorabile come sa difendersi da un conducente d'automobile ricco che guidava contromano e crede di passarla liscia facendo il prepotente) come quando tira letteralmente fuori dal finestrino con la sola forza delle sue braccia il ladro alla guida della sua automobile scassata.
Mentre diverte e si diverte a raccontare la sua storia il film sa cogliere una serie di notazioni antropologiche (la cultura musicale popolare, la solidarietà di classe) e sociali (la scarsa scolarizzazione del post proletariato) in maniera precisa e attenta imbastendo un sototesto niente affatto banale pur nell'orizzonte brillante della commedia.
Todas las mujeres [t.l. Tutte le donne] (Spagna, 2013) di Mariano Barroso è l'adattamento cinematografico (la sceneggiatura ha vinto il Goya 2014) della serie televisiva quasi omonima dello stesso regista.
Il film racconta le vicissitudini di Nacho, un veterinario quarantenne in difficoltà economiche (ha cercato di rubare alcuni capi di bestiame al suocero) il giorno in cui viene abbandonato dalla moglie.
Tra l'amante ventenne, la ex avvocato, la sua psicologa, la madre e la cognata (con la quale finisce a letto) il film cerca di restituire un ritratto di Nacho (ben interpretato da Eduard Fernández) a tuttotondo senza nulla aggiungere però i tanti maschi adolescenti invecchiati egopatici e bugiardi che il cinema, iberico e non, ha già ampiamnete raccontato.
Nonostante alcuni dialoghi davvero brillanti il film risulta molto poco cinematografico la storia sviluppandosi attraverso le parole e mai tramite le immagini tanto da far pensare all'adattamento dal teatro e non dalla tv.
Lo illusos [Gli illusi] (Spagna, 2013) di Jonás Trueba, figlio d'arte, suo padre è Fernando Trueba, mentre suo zio David è anche lui presente al Festival con una pellicola, è un film, in bianco e nero, che racconta le vicissitudini di un gruppo di giovani scrittori, registi, attori e attrici, con un gusto metacinematografico (ciak e microfoni invadono a volte il campo, mentre il sonoro non sempre è in sincrono, per mettere in scena anche il dispositivo cinematografico con le sue convenzioni narrative) genuino e sincero, che si traduce in un omaggio al cinema che fu (dalla nouvelle vague al pre-cinema) con un occhio al cinema che è (o non è).
Ne risulta una pellicola elegante, nel gusto formale dell'inquadratura e nella capacità di restituire personaggi e figure umane con una sensibilità fotografica per i volti davvero notevole.
Purtroppo la macchina narrativa gira a vuoto il film non essendo interessato (più che essendo incapace) a inserire i suoi personaggi in un tessuto sociale, qualunque esso sia (non ci è dato sapere di cosa vivono), o in un orizzonte antropologico-politico, il film rimanendo una riflessione autoreferenziale e algida sul cinema stesso, senza la spocchia di certe operazioni analoghe francesi (una per tutte i film di Philippe Garrell cui Jonás Trueba è stato inopportunamente accostato) ma con lo stesso limite di fondo un estetismo formale che tradisce un narcisismo che non consente mai di interessarsi davvero ai perosnaggi che diventano parte del paesaggio visivo.
La sovrastruttura cinematografica non ha modo di confrontarsi con la vita concreta fatta di economia e ideologia e non solo di sentimenti per cui il film non esce dallo stantia e adolescenziale problematica dei rapporti tra uomo e donna che erano già triti ai tempi di Godard figuriamoci oggi.
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